:: rassegna stampa

Corriere della Sera, 2 dicembre 2006

Tenco, un pianoforte e un po’ di Brecht

Intanto ci sono un interprete, un musicista, un regista e un autore e tutti e quattro fanno bene il loro mestiere. Basterebbe questo per fare di “Quante vite avrei voluto” un piccolo caso. A cominciare dall’attore, Gianluca Ferrato, che ad un recitazione matura e consapevole unisce una capacità vocale non comune. Sotto altri cieli queste qualità si sommano e concorrono a fare di questi artisti stelle di prima grandezza. Sotto le nostre nuvole Gianluca Ferrato può vantare un curriculum importante, costruito a partire dalla scuola del Piccolo di Milano, un futuro nel musical “Cabaret” con la Compagnia della Rancia al fianco di Michelle Hunziker, e un presente fatto di un’impresa che avrebbe meritato una platea più grande. “Quante vite avrei voluto” è un omaggio a Luigi Tenco, anzi è “una storia per Luigi Tenco”. La drammaturgia di Piegiorgio Paterlini, si, lo stesso che aveva firmato un omaggio a Mia Martini, conferma quello che promette: non un giocarello sulle canzoni famose, non un recital, non un’operazione di risulta. E’ una storia, che parte da quanto Luigi Tenco c’è nella nostra vita e da quante sue canzoni abbiamo ancora nell’anima. “Non biografie, non didascalie”, scrive Paterlini. Le canzoni, accompagnate dalla musica eseguite con sobria ed efficace teatralità dal giovane pianista Marco Savatteri, sono coerenti ad un omaggio che si propone di raccontare la persistenza di un mito e le domande che ancora suscita.
Proprio le canzoni sono forse la sorpresa maggiore. In uno spettacolo che vuole essere un omaggio ad un cantautore era molto forse il rischio di imitare l’inimitabile Luigi Tenco. I testi sono invece continuamente intrecciati alla drammaturgia, da questa prendono spunto e a questa ritornano. E Gianluca Ferrato interpreta teatralmente le parole di Luigi Tenco, in modo brechtiano, se l’accostamento è consentito. Il resto, e non è poco, lo fa la regia di Marco Mattolini, capace di trasformare in magia il più antico dei giochi scenici. Il pianoforte si allunga e sia apre a farsi schermo per proiezioni, spesso solo le prime pagine del Corriere della Sera, di quel gennaio 1967. Lampi, quanto basta ad accompagnare la commozione.
Deve essere proprio un gran momento per il teatro italiano, se si permette il lusso di lasciare al pubblico scelto dell’Orologio, la bravura di Ferrato, l’esperienza e l’abilità di Mattolini. Un regista che ha lanciato Luca Zingaretti, quando il commissario Montalbano doveva ancora uscire dalla penna di Camilleri, che ha governato star di prima grandezza, ad esempio regalando a Flavio Bucci uno dei suoi Pirandello più comprensibili. Che ha portato sui palcoscenici italiani autori come Puig e Fassbinder. Nel dubbio, rimane un’unica certezza: Luigi Tenco meritava uno spettacolo così.

Paolo Fallai


Il Manifesto, Domenica 10 dicembre 2006

Monologo e canzoni. La vita di Luigi Tenco ripercorsa al pianoforte

Sono trascorsi 40 anni da quella strana notte del ’67 e oggi la storia di Tenco approda al Teatro dell’Orologio di Roma sotto forma di “monologo con canzoni” in un testo. “Quante vite avrei voluto” scritto da Piergiorgio Paterlini e per la regia di Marco Mattolini. Sul palco, accompagnato al pianoforte da Marco Savatteri, Gianluca Ferrato il cui apporto autorale, ancorché non segnalato in locandina è indiscutibile visto il risultato.
Al centro del palco un pianoforte a coda smisurato e surreale che, grazie a un sistema di porte, si fa contenitore dove Ferrato si nasconde, da dove riemerge, e sul quale vive per tutta la durata dello spettacolo, in un dialogo continuo con il pianista, interlocutore muto. E il pianoforte è centrale in questa storia forte del simbolismo musicale certo ma anche riferimento obbligato ai tratti biografici dello showman. Il canovaccio è classico nell’intrecciarsi delle due storie, quella personale o idealizzata incuneata in quella di Tenco diventando così una lunga riflessione sul senso dell’esistenza sull’abbrivio delle canzoni di Luigi; percorsi esistenziali che si intrecciano con la parabola del cantautore. Con i suoi errori e le sue illuminazioni, accostando esperienze dissimili ma accomunate da un’esigenza di accettazione. Serve a poco oggi, e comunque non spiega, appoggiarsi alle parole di Herbert Pagani: “Se invece della sua pistola avesse preso un passaporto, forse oggi non sarebbe morto”. E non spiega perché, per ripercorrere le speculazioni di Camus: “Il suicidio è l’unico problema filosofico veramente serio”. Senza scendere nella polemica che ci vede discordi dalle risultanze dell’esame autoptico eseguito solo dopo decenni, il pianoforte con le sue porte a incastro, diventa così una Moby Dick oscura e presaga del naufragio degli uomini, solo che nel suo ventre si dibatte ancora uno Jona intenzionato a non essere digerito dall’animale, a resistere. Il pianoforte è una nave con cento boccaporti, il suo destino che sembra segnato dipende dall’acqua che riuscirà a imbarcare. E, ancora, le porte che Ferrato apre come un prestigiatore sono altrettanti nodi junghiani, sinonimo dell’impossibilità spesso di fare scelte appropriate. Quella massa oscura infine, è la bara che l’uomo porta sempre con sé (come il nero nel finale di Grand Hotel des Palmes di Memè Perlini), come un destino che quasi rende inutile lo sforzo di un moderno Prometeo (che nel film fa, appunto, naufragio).
Paterlini, a proposito di suicidio, affida all’interpretazione di Ferrato un’intuizione geniale: “questa sera comunque partenza, sopra o sotto un treno, dov’è la differenza?”; il Corriere della Sera degli anni ’60 sfogliaot e letto in pubblico fa rimarcare all’attore come una volta l’isola in prima pagina fosse Cuba, oggi invece l’isola dei famosi.
Lo spettacolo è convincente, arioso, persino ironico e contestualizza, rendendolo modernissimo, nostro contemporaneo, un protagonista della cultura degli anni ’60. Gianluca Ferrato giganteggia, vero e proprio animale da palcoscenico. D’altronde parla per lui il suo lavoro: diplomato alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, è stato diretto da Strehler nell’Arlecchino servitore dei due padroni e ha lavorato con Giancarlo Corbelli, con Filippo Crivelli, con Salvo Randone, fra gli altri.
Si replica. Evviva.

Aldo Fegatelli Colonna


Il Giornale, Domenica 3 dicembre 2006

Ecco come si scrive un diario sulle note di Tenco
“Quante vite avrei voluto” di Piergiorgio Paterlini in bilico tra ricordi personali e grandi eventi della Storia

Nella notte del 26 gennaio 1967, dopo essere stato eliminato al Festival di Sanremo, il grande cantautore Luigi Tenco, si toglie la vita. Pochi giorni dopo si svolge in Italia il primo concerto dei Rolling Stones, e per la prima volta un giudice italiano riconosce la nuova identità sessuale successivamente ad un’operazione chirurgica. Tutto questo e molto altro nello spettacolo in scena al Teatro dell’Orologio di Roma. Un omaggio a Tenco dal titolo “Quante vite avrei voluto” di Piegiorgio Paterlini, un titolo che ci suggerisce la chiave di lettura di questo testo raccontandoci invece un’altra vita, quella di un bambino che quella sera davanti all’evento televisivo aveva solo sette anni. Gianluca Ferrato presta la sua energia, il suo coraggio e la potenza della sua voce a quel bimbo ormai cresciuto, permettendogli di interpretare i toni dello scoramento, dell’insoddisfazione, di un inesauribile desiderio d’amore infantile diventato ossessione.
Quel bimbo ha una sola certezza: non avrà mai l’amore di una madre troppo occupata e distratta dallo spronare o rimproverare i suoi allievi di pianoforte. E purtroppo lui non è e non sarà mai oggetto delle sue attenzioni perché non possiede il magico dono del linguaggio musicale. Così, mentre i rituali materni si ripetono verso gli “altri”, in lui si sviluppa l’incubo, rappresentato da un pianoforte dalla tastiera infinita, sopra e dentro cui scorrono la vita e la morte.
Un pianoforte a coda dalle proporzioni esagerate, calpestabile e mutevole, che campeggia sulla scena; un pianoforte che è strumento musicale ma anche tomba e nascondiglio e pannello per le proiezioni degli articoli di allora, ma che soprattutto è il simbolo di un obiettivo mancato: il successo.
Ed è nell’intreccio di questa vita a noi sconosciuta con le parole coinvolgenti e semplicemente vere delle canzoni di Tenco che nel nostro profondo si dipana un parallelismo concreto, che cerca spiegazioni su livelli differenti, attraverso linguaggio diversi, passando dalla musica evocativa alla parola dura all’immagine esplicativa, con la regia di Marco Mattolini, che sa alternare momenti vitali ed energici a racconti più intimi che ci danno il senso di sé, di noi, di un mito generazionale.
E se è vero che non c’è una verità più vera di altre e non c’è una motivazione più forte di altre che possa spiegare le scelte che segnano il percorso della nostra esistenza, è altrettanto vero che ci sono sollecitazioni emotive che ci spingono verso una scelta piuttosto che un’latra e che ci uniscono indissolubilmente anche se in destini diversi. “E lontano lontano nel tempo, qualche cosa negli occhi di un altro ti farà ripensare ai miei occhi”.
Al pianoforte Marco Savatteri.

Maria Letizia Maffei



Messaggero Veneto, Domenica 15 aprile 2007

Un pianoforte, musica e parole per ricordare il grande Luigi Tenco

Ciao, amore, ciao, Vedrai vedrai, Mi sono innamorato di te, Angela e tante altre perle d’autore dal sapore un po’ jazz firmate da Luigi Tenco nella sua breve vita sono più attuali che mai, perché parlano direttamente al cuore di chi ascolta, senza retorica o banalità. Frammenti di vita quotidiana che appartengono al sempre e non al revival: mescolati ad altri, più ribelli e nell’arrangiamento originale un po’ beat, come E se ci diranno (era il retro del 45 giri Ciao, amore, ciao). Io sono uno e Ognuno è libero, costituiscono l’intelaiatura del lavoro “Quante vite avrei voluto.” (da una canzone di Ruggeri riscoperta con il format tv Il Bivio) “Una storia per Luigi Tenco”.
Un’ora e mezza di monologhi e canzoni che si intrecciano, si mescolano, con la presenza autorevole, poetica e mai oltre le righe di Gianluca Ferrato, che vive il testo di Piergiorgio Paterlini accompagnato al pianoforte dal bravo Marco Savatteri e dalla regia attenta e senza cali di tensione di Marco Mattolini. In scena un pianoforte che diviene molto lungo con un gioco di tavole, quasi un palco sul palco dove Ferrato, sostanzialmente, ci racconta di come a sette anni, in quel maledetto 26 gennaio 1967, visse la tragedia di Tenco: tutti i dettagli sono rigorosamente veri, anche l’accusa di aver manipolato la scena della tragedia con un grottesco andirivieni della salma da e per l’obitorio, corrispondono a realtà, come il proiettile che non è compatibile con la pistola che Tenco avrebbe usato.
“Quante cose ti sei perso, Luigi”, ripete Ferrato tra una canzone e l’altra, interpretate recitando e con vocalità ottima, spingendo sarcasticamente laddove Luigi aveva così voluto. Certo, il modo di cantare di Tenco era unico, cioè da jazz man che sapeva suonare il sassofono (e l’aveva fatto anche nei primi 45 giri di Paoli), e legava le parole l’una all’altra senza pausa.
Le canzoni di Luigi diventano il testo del lavoro: Se stasera sono qui apre, seguita da Vedrai vedrai, da Pietre di Gian Pieretti, altra canzone amara di quel festival (fraintesa dal francese Antoine che la ridusse a un divertissment). Ciao, amore, ciao, Se sapessi come fai, Dio è morto dei Nomadi (uno dei pezzi più importanti della beat generation italiana), Una vita inutile, E se ci diranno, Ognuno è libero, Un giorno dopo l’altro, adattamento di un brano francese all’epoca sigla finale del Maigret di Cervi. Mi sono innamorato di te, una stupenda Angela, e Lontano lontano.
Cardine del racconto anche la lettera vera di Tenco alla sua Valeria con una finta love story. Ferrato ricorda anche il falso biglietto trovato nella stanza di Tenco, inspiegato e illogico per chi l’aveva conosciuto. Chiudono una bellissima Ciao Luigi di Rudy Marra e il pezzo di Ruggeri: si prova a suggerire un finale da Sliding doors, ma ci riaccorge che non sarebbe credibile. Un Tenco vivo oggi. Un modo sincero, onesto, mai accomodante di rendere omaggio a un grande artista scomparso in quello che De Gregari chiamò in canzone L’incidente, mutando poi il titolo in Festival. Una serata intensa: grazie anche agli arrangiamenti di Stefano De Meo.

Giuliano Almerigogno


:: foto di scena Neri Oddo [Teatro Litta, Milano 2008]

 

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